INTERVISTA A CURA DI: JACOPO FANO'
Quando, mesi fa, ho visto per la
prima volta “La Casa Delle Finestre Che Ridono” ed il più recente “Il Papà Di
Giovanna”, mai avrei pensato, in un’assolata giornata di marzo, di aver accesso
alla possibilità, probabilmente unica, di intervistare telefonicamente il
regista Giuseppe “Pupi” Avati.
E’ complesso da spiegare, da
rendere comprensibile, affidandosi al tecnicismo della sintassi, la tensione
spirituale che pulsa nell’ormai anziano autore, la potenza vitale coniugata nei
termini di un raffinato amore per l’individualità concepita nella sua accezione
olistica, che, nonostante il tono pacato, si riverbera marcatamente in ogni
singolo concetto comunicato.
Il rischio è, banalmente, di
sminuire la mia fortuna da un lato, e la profondità del pensiero del cineasta
dall’altro, il quale, ricorrendo ad una configurazione del pensiero semplice,
scorrevole, esprime le linee guida della sua arte.
Un’estetica rivolta all’umano, alla
narrazione ariosa, concentrata sull’emotività prima che sulla sterile analisi
naturalista, scevra, quest’ultima, di tradurre in immagine vivida le
sfaccettature dell’animo.
L’occhio ispirato di Avati tramuta
una scelta stilistica in una chiave di lettura adatta a leggere la vicenda
esistenziale di protagonisti sovente sconfitti, delusi, mediocri, accomunati,
come il loro creatore, da una fiducia, da una speranza, in una ricompensa che
plachi il dolore di innumerevoli crinali.
JF:
Come si è avvicinato al mondo del
cinema? Ho letto che non è stato un percorso immediatamente disponibile e che,
al contrario, ci è arrivato tardi…
PUPI
AVATI: No, infatti. Era il 1964, vidi 8 e mezzo di Federico Fellini e rimasi
folgorato dalla vigoria espressiva di questo strumento. Mi si è aperto un mondo
nuovo. Quel cinema poneva l’attenzione
sull’individuo narratore, in modo totalizzante, evidenziando una potenzialità
estrema, andava oltre il mero naturalismo, sottolineando una visione ampia,
larga, concentrandosi sulla vicenda umana e sulla relazione tra ciò che vedi e
ciò che invece non vedi. Rimasi folgorato.
JF:
Lei ha collaborato con Pasolini, in occasione della stesura della sceneggiatura
per Le 120 Giornate di Sodoma. Ne possiamo parlare brevemente?
P.A.
: Un incontro dovuto al caso, in quanto originariamente la sceneggiatura che
avevamo scritto era pensata per il regista Vittorio De Sisti. Successivamente,
per le scabrosità all’interno del testo, abbiamo pensato di affidarlo ad un
protetto di Pasolini, Sergio Citti (regista di Storie Scellerate, attore in
Accattone, ndr). Ci siamo quindi ritrovati in tre a sceneggiare, in quanto la
bozza di partenza non aveva incontrato il favore di Pasolini, io, Citti e lo
stesso Pierpaolo, nonostante poi fossi io a tornare a casa la sera e ad
apportare materialmente i cambiamenti. Non mi è stato semplice partecipare alla
stesura di quella pellicola, soprattutto per la difficoltà nel calarmi in un
contesto composto prevalentemente da una visione cruda, da una forte
disperazione, da una spiccata tragicità, distante dal mio essere. Comunque sono
lusingato di aver avuto la possibilità di collaborare con lui.
JF:
Ma mi dica, com’era come persona, nel privato? Sovente ci raggiunge una visione
alterata della sua figura…
P.A.
: Era mite, sensibile, aperto mentalmente, attento a non ferire le persone
attorno a lui. Quando doveva propormi dei cambiamenti alla scrittura lo faceva
sempre con un garbo notevole, benché potesse permettersi atteggiamenti diversi.
Era comprensivo e spiccava la sua affettività. Mi ricordo quando lo mi presentò
la famiglia, mi ricordo la quotidianità semplice e borghese, fatta di
preoccupazioni altrettanto semplici, come il piatto da preparare per la cena, e
proprio lì, accompagnato dalla madre e della sorella, emergeva il suo lato
umano, la sua delicatezza.
JF:
Cosa ricorda del rapporto tra la cultura di sinistra e Pasolini?
P.A.:
Con Pierpaolo non parlavo quasi mai di politica. Io non me ne interesso,
preferisco concentrarmi sull’uomo, sulla massa come ente a cui rivolgersi, lui
non commentava, se non marginalmente. Era di sinistra, certo, ma aveva una sua
personalità, come si evince dagli Scritti Corsari o dai suoi interventi sul
Corriere della Sera. In quel contesto, dominato dai due blocchi, democristiano
e comunista, era probabilmente una spina nel fianco. Ha, comunque, sempre
rispettato la mia cattolicità (Pupi ricorda come PPP lo introdusse alla madre
dicendo “mamma, ecco, questo è un cattolico!”).
JF
: Invece, qual era la sua relazione con Federico Fellini?
P.A.
: Con Fellini ero amico, amico vero (non posso dire lo stesso di Pasolini, la
relazione era diversa), abitavamo a cento metri di distanza, le nostre madri
andavano a chiesa assieme. Ho trascorso
assieme a Federico gli ultimi cinque anni della sua vita, ero tra quelle dieci
persone al massimo a cui concedeva di assistere alle “prime private” dei suoi
nuovi film. Ma ho anche vissuto il suo periodo più nero, il suo declino anche
fisico, ed è stato complesso osservare come una figura reputata comunemente un
grande genio, declinare. Ho condiviso le sue umiliazioni, i momenti in cui le
case di produzione non lo badavano più (rammenta di come Fellini telefonasse
alle varie sedi, ottenendo solo un “la richiameremo noi”), la sua malattia.
J.F.
: Colgo l’occasione per chiederle se l’esperienza di scrivere un’autobiografia,
dato che ne parlavamo poc’anzi, sia stata in qualche modo catartica…
P.A.
: Lo è sempre. L’ho scritta perché ognuno di noi deve fare lo sforzo di
immaginarsi in contesti, situazioni, ipotesi, non rinunciando, non respingendo
mai i propri sogni, perché essere amato attraverso la propria espressione è un
richiesta legittima. La mia vita è l’emblema di questo atteggiamento non
rinunciatario: è stata difficile, tuttavia con fiera ostinazione, un minimo di
talento, ho affrontato svariate salite. Con la persistenza da qualche parte,
poi dipende da persona a persona, da come vengono fatte le cose, più o meno
bene, si arriva. Non bisogna rassegnarsi ai raccomandati…ho ricevuto da
numerose persone dei responsi positivi, nel libro hanno trovato una incitazione
a non abbandonare, a perseverare (quantunque Avati non l’abbia utilizzata, la
parola resilienza riassume il suo concetto in maniera mirabile, ndr). Il
segreto è tenersi alla larga dal cupo pessimismo…
J.F.
: Mi perdoni l’interruzione, ma accetto che lo sforzo sia al centro
dell’esistenza, però come vede il binomio passione-talento?
P.A.
: La passione da sola ti porta alla professionalizzazione, mentre il talento
permette di affermarsi, infondere qualcosa di veramente tuo in quello che
fai…questa a mio avviso è la fondamentale differenza.
J.F.:
Il suo essere cattolico esercita un’influenza su questa visione del mondo?
P.A.
: Sì, il senso della Provvidenza insegnatomi da mia madre, la sacralità come
modo di combattere il pessimismo, mi hanno aiutato a riconoscere una finalità
nelle mie azioni. E’ terapeutico sviluppare la consapevolezza che prima o poi
si possa essere risarciti dalla vita. Quando telefonavo a mia madre raccontando
delle disavventure o dei fallimenti, ricorreva sempre ad un celebre detto
contadino: “Si chiude una porta, si apre un portone”, così da non scoraggiarmi.
Questa consapevolezza di un qualcuno che si “occupa” di me, le cito un film
famoso negli anni Cinquanta “Lassù qualcuno ci ama” per rendere meglio il
significato del discorso, la riconosco nella mia parabola professionale, io
passato da vendere surgelati a girare 45 pellicole per il cinema.
J.F:
Passando ad altro, qual è il suo giudizio sul cinema italiano?
P.A.:
E’ ridotto ad un commediola di corto respiro, ricicla le stesse quattro
formulette, interpretate dai soliti cast da un lato, e dall’altro al cinema
d’autore afflitto da enormi difficoltà. Si punta a blandire il pubblico, che
non è in grado di distinguere la qualità né di capire se un attore è bravo
oppure è un cane… quando ho cominciato io si facevano 350 film all’anno, si
rende conto? 350, e lavoravano tutti, e probabilmente i registi attivi erano
ancora in numero maggiore, dato che non la totalità dei cineasti gira un film
all’anno. Oggi se ne girano 60 se va bene, sempre con dei nomi di spicco (fa
riferimento a Zalone, Bisio, De Luigi) e con uno sguardo rivolto al botteghino.
Su 350 pellicole, capisce, 10 potevano essere capolavori, è una percentuale
accettabile. Ma su 60? Questa si riduce all’infinitesimale, se pensa, inoltre,
che i film prodotti sono supportati proprio in vista della capacità di
commercializzazione.
J.F.:
E’ vero anche che così facendo si sottrae spazio ad un ricambio generazionale…
P.A.
: Esatto, si lascia fuori la sperimentazione, la possibilità per i giovani di
inserirsi nel contesto. Lo stesso vale per la televisione: gli autori, non so
se ci sia buona o mala fede, non sembrano saper produrre nulla di qualità,
nulla che contrasti l’appiattimento culturale dei nostri tempi. Siamo
contraddistinti da una pigrizia intellettuale, mentre la critica è
frequentemente sterile, non ti dà un indirizzo su quali strade intraprendere
per migliorare.
J.F.:
Conti che però l’Italia mi sembra un mercato piccolo, ridotto…è normale che una
preoccupazione pressante sia il ritorno economico…
P.A.:
Non è vero. Anche la Francia è un mercato di dimensioni ridotte, eppure sforna
materiale di qualità, di spessore, c’è questa ricerca di una sensibilità
diversa.
J.F.
: Ma nemmeno il film di genere è percorribile? Una volta, negli anni Ottanta,
eravamo maestri…
P.A.
: Il film di genere non si fa più ed è un peccato. Era una scuola, una modalità
di apprendimento per giovani registi che imparavano attraverso, appunto, i
canoni di genere. Oggi che “genere” esiste? Solo la commedia, niente altro. Una
commedia sterile, superficiale.
J.F.
: Non ci salva nemmeno il trionfo della Grande Bellezza di Sorrentino?
P.A.
: Non basta a redimere il cinema italiano dalle sue colpa. Il film di
Sorrentino è bellissimo, felliniano, contraddistinto da una visione ampia e da
un’ambizione, un cinema sul cinema che, mi sembra, pochi han capito. Mi vengono
a dire che non ne si comprende la logica…tuttavia non è sufficiente a sollevare
il cinema d’autore, nonostante aiuti un’esposizione massiccia, un pubblico che
ti viene a vedere. In generale dello stato attuale del cinema nostrano salvo
solo Sorrentino e pochi altri…in Italia non conta più nulla una forma
d’espressione, lo ribadisco, qualitativamente apprezzabile.
J.F.:
Un’ultimissima domanda signor Avati…qual è il suo spettatore ideale?
P.A.
: Quello che mi somiglia maggiormente, non da un punto di vista anagrafico si
badi. Potrebbe pure avere 25 anni. Dev’essere sensibile, abituato a guardare
alle cose della vita da vicino, dotato di apertura mentale, senza pregiudizio
alcuno, con lo spirito di un fanciullo come me, ostinato, con una tendenza al
bello. Alcuni sostengono che giri film rassicuranti, è vero, in primis
rassicuro me stesso, ecco, lo spettatore ideale è quello che non si arrende,
che cerca il risarcimento rassicurante alla fine, per questo spesso i miei
personaggi sono degli uomini normali, medi anche inadeguati.
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