sabato 5 aprile 2014

PUPI AVATI: Il cinema italiano? Commediole senza senso!



INTERVISTA A CURA DI: JACOPO FANO'

Quando, mesi fa, ho visto per la prima volta “La Casa Delle Finestre Che Ridono” ed il più recente “Il Papà Di Giovanna”, mai avrei pensato, in un’assolata giornata di marzo, di aver accesso alla possibilità, probabilmente unica, di intervistare telefonicamente il regista Giuseppe “Pupi” Avati.
E’ complesso da spiegare, da rendere comprensibile, affidandosi al tecnicismo della sintassi, la tensione spirituale che pulsa nell’ormai anziano autore, la potenza vitale coniugata nei termini di un raffinato amore per l’individualità concepita nella sua accezione olistica, che, nonostante il tono pacato, si riverbera marcatamente in ogni singolo concetto comunicato.
Il rischio è, banalmente, di sminuire la mia fortuna da un lato, e la profondità del pensiero del cineasta dall’altro, il quale, ricorrendo ad una configurazione del pensiero semplice, scorrevole, esprime le linee guida della sua arte.
Un’estetica rivolta all’umano, alla narrazione ariosa, concentrata sull’emotività prima che sulla sterile analisi naturalista, scevra, quest’ultima, di tradurre in immagine vivida le sfaccettature dell’animo.
L’occhio ispirato di Avati tramuta una scelta stilistica in una chiave di lettura adatta a leggere la vicenda esistenziale di protagonisti sovente sconfitti, delusi, mediocri, accomunati, come il loro creatore, da una fiducia, da una speranza, in una ricompensa che plachi il dolore di innumerevoli crinali.

JF: Come  si è avvicinato al mondo del cinema? Ho letto che non è stato un percorso immediatamente disponibile e che, al contrario, ci è arrivato tardi…
PUPI AVATI: No, infatti. Era il 1964, vidi 8 e mezzo di Federico Fellini e rimasi folgorato dalla vigoria espressiva di questo strumento. Mi si è aperto un mondo nuovo.  Quel cinema poneva l’attenzione sull’individuo narratore, in modo totalizzante, evidenziando una potenzialità estrema, andava oltre il mero naturalismo, sottolineando una visione ampia, larga, concentrandosi sulla vicenda umana e sulla relazione tra ciò che vedi e ciò che invece non vedi. Rimasi folgorato.

JF: Lei ha collaborato con Pasolini, in occasione della stesura della sceneggiatura per Le 120 Giornate di Sodoma. Ne possiamo parlare brevemente?
P.A. : Un incontro dovuto al caso, in quanto originariamente la sceneggiatura che avevamo scritto era pensata per il regista Vittorio De Sisti. Successivamente, per le scabrosità all’interno del testo, abbiamo pensato di affidarlo ad un protetto di Pasolini, Sergio Citti (regista di Storie Scellerate, attore in Accattone, ndr). Ci siamo quindi ritrovati in tre a sceneggiare, in quanto la bozza di partenza non aveva incontrato il favore di Pasolini, io, Citti e lo stesso Pierpaolo, nonostante poi fossi io a tornare a casa la sera e ad apportare materialmente i cambiamenti. Non mi è stato semplice partecipare alla stesura di quella pellicola, soprattutto per la difficoltà nel calarmi in un contesto composto prevalentemente da una visione cruda, da una forte disperazione, da una spiccata tragicità, distante dal mio essere. Comunque sono lusingato di aver avuto la possibilità di collaborare con lui.

JF: Ma mi dica, com’era come persona, nel privato? Sovente ci raggiunge una visione alterata della sua figura…
P.A. : Era mite, sensibile, aperto mentalmente, attento a non ferire le persone attorno a lui. Quando doveva propormi dei cambiamenti alla scrittura lo faceva sempre con un garbo notevole, benché potesse permettersi atteggiamenti diversi. Era comprensivo e spiccava la sua affettività. Mi ricordo quando lo mi presentò la famiglia, mi ricordo la quotidianità semplice e borghese, fatta di preoccupazioni altrettanto semplici, come il piatto da preparare per la cena, e proprio lì, accompagnato dalla madre e della sorella, emergeva il suo lato umano, la sua delicatezza.

JF: Cosa ricorda del rapporto tra la cultura di sinistra e Pasolini?
P.A.: Con Pierpaolo non parlavo quasi mai di politica. Io non me ne interesso, preferisco concentrarmi sull’uomo, sulla massa come ente a cui rivolgersi, lui non commentava, se non marginalmente. Era di sinistra, certo, ma aveva una sua personalità, come si evince dagli Scritti Corsari o dai suoi interventi sul Corriere della Sera. In quel contesto, dominato dai due blocchi, democristiano e comunista, era probabilmente una spina nel fianco. Ha, comunque, sempre rispettato la mia cattolicità (Pupi ricorda come PPP lo introdusse alla madre dicendo “mamma, ecco, questo è un cattolico!”).

JF : Invece, qual era la sua relazione con Federico Fellini?
P.A. : Con Fellini ero amico, amico vero (non posso dire lo stesso di Pasolini, la relazione era diversa), abitavamo a cento metri di distanza, le nostre madri andavano a chiesa assieme.  Ho trascorso assieme a Federico gli ultimi cinque anni della sua vita, ero tra quelle dieci persone al massimo a cui concedeva di assistere alle “prime private” dei suoi nuovi film. Ma ho anche vissuto il suo periodo più nero, il suo declino anche fisico, ed è stato complesso osservare come una figura reputata comunemente un grande genio, declinare. Ho condiviso le sue umiliazioni, i momenti in cui le case di produzione non lo badavano più (rammenta di come Fellini telefonasse alle varie sedi, ottenendo solo un “la richiameremo noi”), la sua malattia.

J.F. : Colgo l’occasione per chiederle se l’esperienza di scrivere un’autobiografia, dato che ne parlavamo poc’anzi, sia stata in qualche modo catartica…
P.A. : Lo è sempre. L’ho scritta perché ognuno di noi deve fare lo sforzo di immaginarsi in contesti, situazioni, ipotesi, non rinunciando, non respingendo mai i propri sogni, perché essere amato attraverso la propria espressione è un richiesta legittima. La mia vita è l’emblema di questo atteggiamento non rinunciatario: è stata difficile, tuttavia con fiera ostinazione, un minimo di talento, ho affrontato svariate salite. Con la persistenza da qualche parte, poi dipende da persona a persona, da come vengono fatte le cose, più o meno bene, si arriva. Non bisogna rassegnarsi ai raccomandati…ho ricevuto da numerose persone dei responsi positivi, nel libro hanno trovato una incitazione a non abbandonare, a perseverare (quantunque Avati non l’abbia utilizzata, la parola resilienza riassume il suo concetto in maniera mirabile, ndr). Il segreto è tenersi alla larga dal cupo pessimismo…

J.F. : Mi perdoni l’interruzione, ma accetto che lo sforzo sia al centro dell’esistenza, però come vede il binomio passione-talento?
P.A. : La passione da sola ti porta alla professionalizzazione, mentre il talento permette di affermarsi, infondere qualcosa di veramente tuo in quello che fai…questa a mio avviso è la fondamentale differenza.

J.F.: Il suo essere cattolico esercita un’influenza su questa visione del mondo?
P.A. : Sì, il senso della Provvidenza insegnatomi da mia madre, la sacralità come modo di combattere il pessimismo, mi hanno aiutato a riconoscere una finalità nelle mie azioni. E’ terapeutico sviluppare la consapevolezza che prima o poi si possa essere risarciti dalla vita. Quando telefonavo a mia madre raccontando delle disavventure o dei fallimenti, ricorreva sempre ad un celebre detto contadino: “Si chiude una porta, si apre un portone”, così da non scoraggiarmi. Questa consapevolezza di un qualcuno che si “occupa” di me, le cito un film famoso negli anni Cinquanta “Lassù qualcuno ci ama” per rendere meglio il significato del discorso, la riconosco nella mia parabola professionale, io passato da vendere surgelati a girare 45 pellicole per il cinema.

J.F: Passando ad altro, qual è il suo giudizio sul cinema italiano?
P.A.: E’ ridotto ad un commediola di corto respiro, ricicla le stesse quattro formulette, interpretate dai soliti cast da un lato, e dall’altro al cinema d’autore afflitto da enormi difficoltà. Si punta a blandire il pubblico, che non è in grado di distinguere la qualità né di capire se un attore è bravo oppure è un cane… quando ho cominciato io si facevano 350 film all’anno, si rende conto? 350, e lavoravano tutti, e probabilmente i registi attivi erano ancora in numero maggiore, dato che non la totalità dei cineasti gira un film all’anno. Oggi se ne girano 60 se va bene, sempre con dei nomi di spicco (fa riferimento a Zalone, Bisio, De Luigi) e con uno sguardo rivolto al botteghino. Su 350 pellicole, capisce, 10 potevano essere capolavori, è una percentuale accettabile. Ma su 60? Questa si riduce all’infinitesimale, se pensa, inoltre, che i film prodotti sono supportati proprio in vista della capacità di commercializzazione.

J.F.: E’ vero anche che così facendo si sottrae spazio ad un ricambio generazionale…
P.A. : Esatto, si lascia fuori la sperimentazione, la possibilità per i giovani di inserirsi nel contesto. Lo stesso vale per la televisione: gli autori, non so se ci sia buona o mala fede, non sembrano saper produrre nulla di qualità, nulla che contrasti l’appiattimento culturale dei nostri tempi. Siamo contraddistinti da una pigrizia intellettuale, mentre la critica è frequentemente sterile, non ti dà un indirizzo su quali strade intraprendere per migliorare.

J.F.: Conti che però l’Italia mi sembra un mercato piccolo, ridotto…è normale che una preoccupazione pressante sia il ritorno economico…
P.A.: Non è vero. Anche la Francia è un mercato di dimensioni ridotte, eppure sforna materiale di qualità, di spessore, c’è questa ricerca di una sensibilità diversa.

J.F. : Ma nemmeno il film di genere è percorribile? Una volta, negli anni Ottanta, eravamo maestri…
P.A. : Il film di genere non si fa più ed è un peccato. Era una scuola, una modalità di apprendimento per giovani registi che imparavano attraverso, appunto, i canoni di genere. Oggi che “genere” esiste? Solo la commedia, niente altro. Una commedia sterile, superficiale.

J.F. : Non ci salva nemmeno il trionfo della Grande Bellezza di Sorrentino?
P.A. : Non basta a redimere il cinema italiano dalle sue colpa. Il film di Sorrentino è bellissimo, felliniano, contraddistinto da una visione ampia e da un’ambizione, un cinema sul cinema che, mi sembra, pochi han capito. Mi vengono a dire che non ne si comprende la logica…tuttavia non è sufficiente a sollevare il cinema d’autore, nonostante aiuti un’esposizione massiccia, un pubblico che ti viene a vedere. In generale dello stato attuale del cinema nostrano salvo solo Sorrentino e pochi altri…in Italia non conta più nulla una forma d’espressione, lo ribadisco, qualitativamente apprezzabile. 

J.F.: Un’ultimissima domanda signor Avati…qual è il suo spettatore ideale?

P.A. : Quello che mi somiglia maggiormente, non da un punto di vista anagrafico si badi. Potrebbe pure avere 25 anni. Dev’essere sensibile, abituato a guardare alle cose della vita da vicino, dotato di apertura mentale, senza pregiudizio alcuno, con lo spirito di un fanciullo come me, ostinato, con una tendenza al bello. Alcuni sostengono che giri film rassicuranti, è vero, in primis rassicuro me stesso, ecco, lo spettatore ideale è quello che non si arrende, che cerca il risarcimento rassicurante alla fine, per questo spesso i miei personaggi sono degli uomini normali, medi anche inadeguati.

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