lunedì 13 gennaio 2014

RODOLFO MONACELLI: Lukàcs comunitarista


Gyorgy Lukàcs è stato definito da più parti ‹‹il più grande marxista del XX secolo›› (tra cui Diego Fusaro e Costanzo Preve). Non a caso. Il grande filosofo ungherese è stato uno dei pochi marxisti occidentali a liberare il marxismo dalle tendenze deterministe, economiciste, scientiste e positiviste che hanno snaturato il pensiero di Marx e, di conseguenza, il pensiero comunista. Fu proprio questa eterodossia di Lukàcs ad averlo incasellato, insieme a Korsch, nel filone del cosiddetto “marxismo umanista” mentre egli non fece altro, in realtà, che restituire Marx ai marxisti. Numerosi furono i campi d’intervento di Lukàcs, dalla critica letteraria alla filosofia (che purtroppo per i limiti di spazio di quest’articolo accenneremo solo brevemente invitando, chi volesse, ad approfondire l’argomento con un’apposita bibliografia alla fine del suddetto articolo), ma con un unico fine: l’interpretazione corretta del pensiero autenticamente rivoluzionario di Marx il cui scopo, citando lo stesso Lukàcs, altro non era se non ristabilire ‹‹quel rapporto con l’intero attraverso il quale soltanto ogni momento singolo della lotta mantiene il suo senso rivoluzionario››.
Fu anche per questa visione “comunitaria” che il pensiero di Lukàcs fu, come vedremo, bistrattato all’interno del movimento comunista, non solo sovietico ma anche occidentale ed europeo, e che oggi va da noi necessariamente recuperato al di là delle retoriche riabilitazioni fuori tempo massimo e delle sue cristallizzazioni normalizzatrici.
Gyorgy Lukàcs nasce a Budapest nel 1885. In seguito si trasferirà a Berlino, dove studierà filosofia, Estetica e letteratura (gli elementi cardine della sua ricerca culturale), fondando insieme a Savor Hevesi e Laszlo Banoczy il “Teatro Thalia”, vincendo a soli 23 anni il premio della Società Kisfaludy con “Storia dello sviluppo del dramma moderno” (1908). Nel 1912 si trasferirà ad Heidelberg legandosi alle più importanti personalità del pensiero sociologico e filosofico di quel tempo (Max Weber, George Simmel, Heinrich Rickert, Wilhelm Dilthey)aderendo al pensiero neokantiano e storicista grazie a cui inizierà a prendere le distanze dal pensiero positivistico-borghese, pur frequentando i più importanti esponenti del pensiero aristocratico-decadente di quel tempo (aderirà infatti al celebre circolo raccolto intorno al poeta Stefan George). Saranno di quel periodo quelle opere “pre-marxiste” che appartengono alla fase giovanile di Lukàcs in cui egli affronterà il problema della funzione sociale dell’arte, della natura dell’Uomo e del suo destino, e della cultura occidentale abbandonata da quei principi di “armonia e totalità” che avevano invece caratterizzato i suoi esordi, in particolare durante il periodo greco (‹‹la fanciullezza dell’umanità›› come bene la definisce Karl Marx).
L’Anima a le Forme e Teoria del Romanzo
Le opere più importanti di questo periodo sono sicuramente “L’Anima e le Forme” (1911)e “Teoria del Romanzo” (1916).
Nell’”Anima e le Forme” Lukàcs, risentendo ancora della sua formazione culturale storicistico-kantiana, contrapporrà nettamente l’arte alla scienza (‹‹nella scienza ci impressionano i contenuti, nell’arte le forme; la scienza ci offre i fatti e le loro connessioni, l’arte invece ci offre anime e destini››), nel senso che quest’ultima viene superata ogni volta che si produce un “contenuto” migliore. Lukàcs, dunque, partendo da quest’antinomia incentrerà la propria riflessione non sulla mera realtà empirica e quotidiana, ma sulla ‹‹verità del mito, il cui vigore riesce a tenere in vita per millenni antichissime saghe e leggende››. È perciò comprensibile come, in questo quadro ideologico di riferimento, l’elemento centrale di quest’opera sia di comprendere quali siano le condizioni necessarie perché la vita possa essere realmente “autentica”. Queste condizioni Lukàcs le individua proprio nella “forma tragica” in cui la morte viene vista come il solo ambito in cui l’individuo, ‹‹divorziato dal mondo››, può veramente ritrovare se stesso. Per questo, giustamente per chi scrive, questa fase di Lukàcs è stata definita “proto-esistenzialistica”, “pre-heideggeriana”, pur essendo sempre presente una fortissima tensione dialettica tra l’aspirazione dell’uomo all’assoluto delle Forme e delle Idee e la propria condizione umana.
In “Teoria del Romanzo”- che costituisce il punto fondamentale dello sviluppo ideologico nel suo passaggio al Comunismo – Lukàcs supererà ‹‹la sfera assolutistica della Tragedia›› grazie ad un’”Utopia” di un uomo restituito alla propria “totalità” riuscendo, in questo modo, ad esprimere pienamente se stesso e, al tempo stesso, riconoscendosi nel mondo come fosse la “propria casa”. In questo scritto giovanile infatti Lukàcs, attraverso il filtro della dialettica hegeliana, accennerà temi che saranno poi fondamentali nel Lukàcs più maturo, cercando gli strumenti teorici per poter sanare quella lacerazione per cui l’individuo solitario, pur continuando ad essere il suo, si trova spaesato nei confronti di un mondo che gli si è estraniato. Una conciliazione tra “Eroe” e “Mondo”, non solo divisi ma contrapposti radicalmente, come due termini che negandosi a vicenda si richiamano l’un l’altro per integrarsi. Il risanamento della lacerazione diventa dunque, per Lukàcs, il momento ideale, l’”Utopia” della ricerca romanzesca, in cui il principio “divino”, cioè la struttura che regge l’opera stessa, diventa la méta del personaggio del romanzo, di un mondo estraniato ed ‹abbandonato dagli Dei››, senza però riuscire a raggiungerlo.
Un’aspirazione, un’utopia alla totalità – ribadiamolo – che nella Teoria del Romanzo si presentava come il fondamento della ricerca inappagata dell’”Eroe” e,insieme, come la fondamentale spinta vitale di questa ricerca.Un’aspirazione alla totalità ed alla integralità che si ritroverà anche nel Lukàcs più maturo.
Lukàcs dall’etica alla Comunità
È in questo periodo che Lukàcs inizia progressivamente ad allontanarsi dal ‹‹soggetto astratto dell’etica individualista››, dunque estranea ad ogni disegno di tipo comunitario.
Importante sarà, in particolare, la scoperta da parte di Lukàcs del concetto di “tattica”, portandolo ad abbandonare la predominanza del momento etico su quello politico. Tattica che, nel saggio “Der Frage des Parlamentarismus”, egli la definirà come ‹‹la congiunzione tra l’obiettivo finale e la realtà immediatamente data›› poiché ‹‹[…] Sebbene si sia ripetutamente parlato della grande agilità della tattica comunista non va dimenticato, per l’esatta comprensione di questo assunto, che la flessibilità della tattica comunista è la diretta conseguenza della rigidità dei principi del comunismo››.
In seguito, in “Taktik und Ethik”, Lukàcs supererà anche questa visione puramente tattica dell’azione individuale, affermando che nessun astratta equivalenza può essere stabilita tra tattica corretta e comportamento etico individuale come invece affermato da Hegel (ricordiamo che in questo periodo Lukàcs si rifaceva ancora al pensiero neokantiano) per il quale ‹‹l’Etica non ha una sua autonomia››.
Per il Lukàcs di quel periodo invece il problema dell’Etica ha significato ‹‹solo se riferito al singolo››, il quale deve agire come se il destino del mondo fosse esclusivamente nelle sue mani e chi decida di non agire dovrà giustificare la propria inattività dinanzi alla propria coscienza, senza addurre la giustificazione di essere solo un singolo: ‹‹chiunque al giorno d’oggi si decida per il comunismo deve, anche nei confronti di ogni essere umano che muore nel corso della lotta per il comunismo, assumersi la stessa responsabilità individuale, come se tutte quelle vite l’avesse oppresse egli stesso››.
Sempre in questo importantissimo saggio Lukàcs introduce inoltre la categoria weberiana della ‹‹possibilità oggettiva›› (der objektiven Moglichkeit)e della ‹‹coscienza di classe›› (Klassbewusstsein), non ancora reinterpretati hegelianamente, ma che conservano qui ancora il carattere di “leggi regolative”.
L’objektiven Moglichkeit ha infatti il suo fondamento solo in rapporto alla formazione della coscienza di classerealizzando una specie di coincidenza tra il “soggetto” ed il “momento storico”. Coincidenza, dunque, ideale e storica ma non ancora etica: se infatti la mediazione regolativa della “possibilità oggettiva” riesce a risolvere il problema della decisione e dell’azione – cioè il problema “tattico” da applicare ad un’azione di gruppo – non riesce però a risolvere il problema della coincidenza della “coscienza” (Gewissen) con se stessi. Una scissione ‹‹tragica ed eroica›› allo stesso tempo, le cui basi teoriche si trovano già in Simmel, Kierkegaard e Weber.
Solo due anni prima era uscito significativamente un saggio di Max Weber, in cui egli respingeva l’equivalenza tra imperativi etici e valori culturali, liberando così l’idea della colpa etica dal suo peso “tragico”, con l’introduzione della formula del “Politeismo”, attraverso cioè il riconoscimento della molteplicità di valori tra loro inconciliabili.
Importante sarà anche la formulazione del pensiero di Kierkegaard da cui Lukàcs riprenderà indubbiamente l’idea della ‹‹dilatazione metafisica›› del concetto di colpa che provocava il dissolvimento della sfera etica stessa, ed il salto alla sfera superiore. A proposito della concezione dell’Etica di Kierkegaard verrà poi definita da Lukàcs, in “Esistenzialismo e Marxismo”, come una ‹‹morale dell’intenzione››: che considera cioè solo ‹‹l’atto individuale del soggetto come il criterio decisivo della morale›› superato, prima di Marx, solo da Aristotele ed Hegel.
Oltre a Kierkegaard, Weber e Simmel la posizione di Lukàcs di ‹‹assolutizzazione del momento etico› fu fortemente influenzata anche dalla storia culturale russa: una cultura dai tratti spiccatamente mistico-religiosi che si saldava organicamente con l’eredità neokantiana nell’ipotizzare una sorta di “Socialismo utopico”, considerato da Weber e Sombart come ‹‹il più autentico››.
Un interesse per la cultura russa di quel periodo come dimostra, non solo la conclusione della “Teoria del Romanzo”, ma anche un’importante recensione dedicata alle posizioni sul rapporto “Etica-Rivoluzione” da parte di Masaryk, a cui parteciparono anche Cernov e Plekanov.
Spunto per il dibattito sono due romanzi di Savinkov, “Il cavallo pallido” e “Quel che non fu”, con una problematica tipicamente dostojevskiana.
L’autore, B. Savinkov, era stato esponente del Partito Socialista Rivoluzionario, e la storia narrata nel romanzo “Il cavallo pallido” – sei terroristi incaricati di  uccidere il governatore della città – è indubbiamente autobiografica (l’autore diresse infatti gli attentati contro Plewe ed il Granduca Sergio). Il personaggio centrale del  romanzo, Giorgio, è inoltre assimilabile all’Ivan Karamazov di Dostojevskij anche se, rispetto a questi, ha una sua positività poiché, pur nel suo scetticismo, egli agisce, anche se l’azione ha indubbiamente una sua carica individualista ed estetizzante.
Per quanto riguarda il secondo romanzo, “Quel che non fu”, il problema fondamentale che emerge è un dilemma di tipo etico: se sia cioè giusto uccidere, in nome di quale ideale sia giusto farlo, e se esista un ideale tale da poter permettere una simile azione. I poli attorno cui ruotò la discussione furono sostanzialmente due: da una parte il “massimalismo etico” (non si deve mai rispondere alla violenza con la violenza)e, dall’altra, il “gradualismo etico”.
La posizione dell’autore era abbastanza chiara, domandandosi come fosse possibile realizzare uno Stato senza violenza utilizzando la violenza stessa e, inoltre, se il mandato di uccidere potesse essere effettivamente gestito da un’organizzazione (il Partito), oppure non sia un diritto esclusivamente “soggettivo”. Questa posizione viene accettata totalmente da Masaryk, il quale critica invece fortemente il “gradualismo etico” di Cernov, il cui ‹‹minimalismo morale non è soltanto oggettivamente oscuro ed indeterminato, ma non è neppure in grado di chiarire il problema della Rivoluzione e del Terrore dal punto di vista, puramente utilitaristico, della Storia universale hegeliana››.
Per Hegel esiste infatti, da una parte, il diritto divino dell’ordine esistente, e dall’altra il diritto della coscienza personale e della volontà soggettiva. Tra queste due sfere sorge inevitabilmente un conflitto insolubile che porta alla ‹‹tragedia››. Questa visione hegeliana, accettata da Plekanov, sarà però rifiutata in toto da Masaryk poiché un processo storico come ‹‹un tutto oggettivamente dato›› è una categoria completamente estranea all’Etica, non potendo risolvere il problema di una coscienza individuale. Masaryk sottolineerà invece l’importanza di ciò che definisce lo ‹‹scetticismo rivoluzionario›› del terrorista Ropsin che ha avuto il merito di porre l’attenzione sul dilemma tragico intrinseco all’agire del terrorista: egli infatti, pur avendo la piena consapevolezza dell’ingiustizia del suo atto, comunque lo compie.
Nella sua recensione Lukàcs metterà maggiormente in rilievo la scelta compiuta da Ropsin rispetto a Masaryk, che riguarda l’idea che quest’ultimo ha della rivoluzione come un ‹‹dovere morale››. Lukàcs osserva invece che se Masaryk percepisce giustamente che la valutazione etica dell’azione rivoluzionaria dev’essere completamente “indipendente” da quella della filosofia della storia e da quella politica, al tempo stesso però il suo criterio morale non si allontana in nessun modo da quel “minimalismo etico” di Cernov, che egli condanna duramente.
Lukàcs, invece, nonostante le letture di Dostoevskij e di Borin Savinkov, che sostenevano il “volontarismo decisionistico”, accentuando il distacco della sfera etica da quella politica, si schiera dalla parte del massimalismo etico, proprio grazie alla figura “tipica” (per utilizzare un termine che sarà molto caro al Lukàcs critico letterario) di Ropsin, senza la quale non si potrebbe neanche considerare il rapporto tra il filosofo ungherese e Szabo che sarà fondamentale per lo sviluppo del suo pensiero. Un legame nato per la volontà comune di depurare il materialismo storico dalle componenti del cosiddetto “marxismo volgare”, rivitalizzandone gli impulsi “etici” (in senso comunitario)grazie al ruolo fondamentale svolto dall’Illuminismo e dall’Idealismo tedesco, da Kant ad Hegel.
Il ‹‹Romanticismo dell’illegalità›› continuerà in ogni caso a svolgere un ruolo positivo nel pensiero lukacsiano fino a “Taktik und Ethik” (dunque fino al 1919)quando l’illegittimità dell’uccidere viene ancora posta tragicamente in contrasto con l’esigenza della rivoluzione: ‹‹[…] Uccidere non è permesso, è una colpa incondizionata ed imperdonabile. Non è permesso farlo, ma tuttavia dev’essere fatto››.
Un principio che verrà totalmente ripudiato come espressione “ideologica” di un movimento rivoluzionario ancora agli inizi solo nel 1920 con “Legalità ed illegalità”, in cui l’autenticità rivoluzionaria in precedenza rivendicata come ‹‹l’ultima radice morale›› diventa un pericoloso strumento che conferisce ancora un certo valore (Geltung) allo stato di cose esistente. Quando si preferisce il pathos della violazione della legge, ci dice infatti Lukàcs, è evidente che il Diritto ha ancora la capacità d’influire sulla meccanica interiore dell’azione. Lukàcs giunge invece alla conclusione che l’azione dev’essere sottratta alla logica della ‹colpa etica››, della responsabilità individuale, ai condizionamenti del necessarismo così come del decisionismo; il punto di vista che deve governare l’agire sarà invece il principio della ‹‹Totalità storica››. Un principio che acquisterà particolare evidenza nei successivi saggi come gli “Studi sul Faust” ed “Il giovane Hegel” quando, attraverso i due massimi esempi dell’Etica dialettica (Hegel e Goethe appunto), Lukàcs scoprirà il valore del ‹‹prospettivismo storico›› che supera le tragedie individuali in una prospettiva collettiva e comunitaria che le trascende, prendendo definitivamente le distanze dall’eredità neokantiana così come dall’estetismo giovanile.
Lukàcs e il Marxismo
Solo a seguito della prima Guerra Mondiale Lukàcs aderì però compiutamente al marxismo, attraverso un percorso che egli stesso definirà come fondamentale ‹‹per ogni intellettuale che prenda sul serio il chiarimento della propria concezione del mondo, lo sviluppo sociale, in particolare la situazione presente, la propria posizione in essa, e il proprio atteggiamento rispetto ad essa››.
Un’adesione che, come abbiamo già accennato, non fu però immediata né agevole, e che Lukàcs stesso divide in più tappe fondamentali. Inizialmente si avvicinò al pensiero di Marx essenzialmente per ciò che concerneva l’economia e la sociologia ritenendo invece, da buon neokantiano quale ancora era, la filosofia materialistica come uno studio totalmente superato, non riuscendo a distinguere il materialismo dialettico da quello non dialettico. Già in questo primo periodo della formazione culturale del filosofo ungherese (siamo nei primi anni del ‘900), Lukàcs si rese però conto della difficoltà a considerare la Realtà semplicemente come “immanenza della coscienza”, tipico della scuola neokantiana, portandolo però paradossalmente vicino a quelle scuole filosofiche irrazionalistiche, relativistiche e mistiche, con le sue conoscenze con i già citati Simmel, Rickert, Dilthey. Importante, in particolare, fu proprio l’influenza di Weber e di Simmel, di cui Lukàcs fu allievo, e dal cui esempio distaccò la sociologia  dal fondamento economico. Così facendo l’influenza marxista nel primo Lukàcs fu sempre meno rilevante portandolo verso un “Idealismo soggettivo” che lo condusse però ad una vera e propria “crisi filosofica” con il passaggio all’”Idealismo oggettivo” (in particolare nella “Teoria del Romanzo” di cui abbiamo già accennato, scritto nel 1912-15). Iniziò così ad acquisire sempre più importanza il filosofo che, dopo Marx, sarà fondamentale nel pensiero lukacsiano: Hegel. Grazie ad Hegel, infatti, Lukàcs inizierà il suo secondo periodo di studio di Marx: un Marx però guardato attraverso la “lente hegeliana”, e dunque non più il Marx economista e sociologo, ma il Marx dialettico. L’autentico pensiero di Marx, e non le sue caricature che dal dopoguerra ad oggi di esso se ne sono fatte, secondo Lukàcs si ritrova infatti ‹‹nella sua intaccabile Unità e Totalità che costituisce l’arma per l’esecuzione pratica, per il dominio dei fenomeni e delle loro Leggi. Se da questa Totalità distacchiamo un solo elemento costitutivo (o anche soltanto lo trascuriamo)avremo di nuovo rigidezza e unilateralità››. Insomma tutto ciò che i partiti cosiddetti comunisti e marxisti hanno praticato occupandosi di una “parte” e mai della “Totalità”, partendo dall’Operaismo per finire nel macchiettiamo “arcobalenista”.
Coscienza e lotta di classe
Questo percorso culminerà nel libro “Storia e coscienza di classe” (1923).
L’essenza di questa fondamentale opera di Lukàcs sarà il tentativo di chiarire come ‹‹il falso concreto riesca a spacciare se stesso per il vero››; una “falsa coscienza” che da luogo all’”Ideologia” nel senso marxiano del termine: cioè un pensiero mistificato in cui la conoscenza della realtà si presenta deformata e distorta.
La “coscienza” del proletariato rivoluzionario deve invece essere, secondo Lukàcs, “vera coscienza”. Distinguendosi anche in quest’opera dal marxismo ufficiale, la sola e fondamentale precondizione per cui  una rivoluzione proletaria possa sorgere è infatti, secondo Lukàcs, non tanto in una precisa situazione oggettivo-infrastrutturale, quanto in un certo livello di consapevolezza e di volontà ideale. Una “coscienza di classe”, appunto, che  coincide proprio con l’acquisizione graduale di una “conoscenza” sempre maggiore della realtà sociale e delle sue contraddizioni, e capace dunque di agire e d’incidere sulla realtà. Una coscienza che per Lukàcs non è acquisibile dalla classe borghese chiusa nei suoi interessi particolaristici, che non sa e non vuole superare, ma solo dal proletariato che saprà elaborare una visione “universale” del mondo e una prospettiva autenticamente rivoluzionaria di esso, proprio grazie alla negazione di sé come classe sociale e dunque alla creazione di una società senza classi.
Secondo Lukàcs, dunque, a differenza della visione leninista, l’elemento fondamentale sarà non l’organizzazione ma la spontaneità e l’immediatezza dell’azione rivoluzionaria, non il Partito ma la Classe ad essere il vero soggetto sociale della lotta anticapitalistica e della trasformazione del mondo.
Quanto queste parole, viste con gli occhi di oggi, possano sembrare illusorie, ingenue e negate dalla storia, è sotto gli occhi di tutti. Bisogna però considerare che, come ha chiarito Goldmann, “Storia e coscienza di classe” si basa ‹‹su una previsione politica errata che dava, all’inizio degli anni ’20, per imminente unaWeltrevolution a carattere puramente proletario›› che però, aggiunge sempre Goldmann, ‹‹non può esaurire il discorso sul libro stesso››.
Quell’astrattismo politico, quel volontarismo fino  ai limiti dell’irrazionalismo, quell’ingenuità del giovane Lukàcs non devono infatti impedirci di vedere quale sia il senso profondo del suo discorso che va trovato nell’esigenza di ‹‹totale de reificazione dell’Uomo››: cioè della ‹‹detotalizzazione della falsa Totalità››. E, nonostante i suoi difetti, questa utopica intransigenza lukacsiana sulla capacità dell’uomo di vincere quel destino che sembra lo abbia condannato a scadere al rango di “cosa”, conserva ancora oggi il suo significato rivoluzionario ed ideale ben lontano da quella visione del marxismo fatto scadere ad empirismo, o ancor peggio a positivismo. Su questo punto bisogna essere molto chiari. Lukàcs in questo suo capolavoro, infatti, affronterà un discorso importantissimo, e quanto mai attuale, nella critica allo scientismo, spesso frainteso come irrazionalismo. Una critica agevolata, del resto, dallo stesso Lukàcs che ne “La distruzione della ragione” accorderà alle Scienze naturali una sorta di “neutra oggettività” che le esenterebbe dal condizionamento a cui sono sottoposte, invece, nel periodo del tardo capitalismo, le cosiddette “Scienze dell’uomo”.
Una presunta “neutralità” che ha fatto pensare i marxisti “scientifici” che, prendendo a modello queste Scienze naturali, avrebbero eliminato dalla loro teoria il carattere “ideologico”. Una posizione così estremista che non fu mai di Lukàcs anche se ne “La distruzione della ragione” numerosi sono i passi in cui egli si avvicina pericolosamente a questa contrapposizione tra Ideologia e Scienza che, in realtà, non fa altro che innalzare la Scienza ad un mito infallibile pregno di “falsa coscienza” e, paradossalmente, di Ideologia.
“Storia e coscienza di classe” fu un’opera ampiamente criticata da parte della dirigenza sovietica del marxismo internazionale (Lukàcs fu infatti costretto a ritirarla)proprio per le critiche nei confronti dello scientismo, del positivismo e dell’economicismo contrapponendosi, di fatto, a “Materialismo ed empiriocriticismo” di Lenin in cui il rivoluzionario russo esponeva una “teoria della conoscenza” molto diversa da quella “hegeliana” di Lukàcs, vista infatti come semplice rispecchiamento della realtà sociale.
Lukàcs e lo stalinismo
Durante la rivoluzione ungherese che aveva portato Bela Kun al potere Lukàcs venne nominato Commissario del Popolo per l’Istruzione e Commissario politico della V divisione rossa. La vittoria di Horty lo costrinse però all’esilio, trasferendosi a Vienna fino al 1929, a Mosca dal 1930 al 1931 come collaboratore dell’IMEL (Istituto Marx-Engels-Lenin), e a Berlino dove però, a causa dell’avvento del Nazionalsocialismo, dovette tornare nuovamente a Mosca come insegnante dell’Istituto filosofico dell’Accademia delle Scienze e redattore delle riviste “Letteratura internazionale” e “La nuova voce”. Al termine della seconda Guerra Mondiale ritornò a Budapest dove partecipò attivamente alla vita politica e intellettuale ungherese ed internazionale. Sarà in questo periodo che Lukàcs esprimerà, a prima vista in maniera incoerente, una sua diversa visione nei confronti dello stalinismo e dell’Unione Sovietica, contrapponendosi a quella ‹‹svalutazione del soggetto›› tipica dello stalinismo e, più in generale, del marxismo dogmatico. Al di là dei pensieri dei sinistri politicamente corretti (basti vedere l’inquietante articolo uscito su Liberazione di Aldo Meccariello l’11/8/2006 in cui si ha il coraggio di scrivere che ‹‹A Lukàcs mancò forse il coraggio e la coerenza per le grandi scelte lungo tutta la sua lunga vita››: cosa che scritta sul giornale diretto da Sansonetti ed espressione di un partito come Rifondazione comunista ha il suono del paradosso e della farsa), mai vi è stata incoerenza nelle posizioni del pensatore ungherese nel periodo staliniano e post-staliniano, soltanto che in quest’ultimo periodo poté esprimere liberamente le sue posizioni portandolo addirittura ad affermare, nel 1968, a seguito dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia: ‹‹Probabilmente l’esperimento iniziato nel 1917 è fallito, e bisogna ricominciare tutto da capo, un’altra volta in un altro luogo›› (Cfr. Istvàn Eorsi, Un ultimo messaggio, in G. Lukàcs, Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, intervista di Istvàn Eorsi. A cura di Alberto Scarponi, Editori Riuniti, Roma, 1983, p.8). Al tempo stesso Lukàcs fu indubbiamente un sostenitore dell’Urss e di Stalin stesso fino alla conclusione della seconda Guerra mondiale. Anche qui però senza incertezze né contraddizioni. A questo proposito penso sia utile citare un breve passo dello stesso Lukàcs tratto da “Marxismo e politica culturale”.
‹‹Da principio credevo, e con me pochi altri, di trovarmi davanti agli avanzi di un passato non superato del tutto: rappisti, sociologi volgari, ecc. Più tardi capimmo che tutte queste tendenze contrarie al progresso del pensiero avevano solidi appoggi burocratici. Tuttavia per un certo tempo credemmo a un carattere, dopo tutto, casuale di questo sistema difensivo del dogmatismo; molti di noi talora sospiravano pensando a Stalin: “Ah, si le roi le savait”. Un tale stato di cose non poteva naturalmente durare in definitivamente. Si dovette riconoscere che la fonte del contrasto tra le correnti progressive che arricchivano la cultura marxista e l’oppressione dogmatica di una burocrazia tirannica su ogni pensiero autonomo era da ricercarsi nel Regime stesso di Stalin e pertanto anche nella sua persona. Tuttavia quando si trattava di prender posizione rispetto a questi fatti, ogni persona riflessiva doveva partire dalla situazione storica del momento, che era quella dell’ascesa di Hitler e della preparazione della sua guerra di annientamento contro il Socialismo. Mi è sempre stato ovvio che ad ogni decisione che tale situazione imponeva dovesse subordinarsi incondizionatamente tutto, anche ciò che a me personalmente era più caro, anche l’opera stessa della mia vita. Io ritenevo che il compito principale della mia vita consistesse nel bene impiegare la concezione marxista-leninista in quei campi che io conoscevo, nel farla progredire nella misura in cui ciò fosse imposto dalla scoperta di nuovi dati. Ma poiché al centro del periodo storico in cui si svolgeva questa mia attività si trovava la lotta per l’esistenza dell’unico stato socialista e quindi del Socialismo stesso, io subordinavo ovviamente ogni mia presa di posizione, anche riguardo alla mia propria opera, alle necessità del momento. Questo tuttavia non significò mai una capitolazione davanti a tutte quelle tendenze ideologiche che si sono formate, propagate e infine dissolte nel corso di questa lotta. Nello stesso tempo non dubitavo che non soltanto un’opposizione era allora fisicamente impossibile, ma che essa avrebbe molto facilmente potuto divenire aiuto intellettuale e morale per il nemico mortale, per l’annientatore di ogni civiltà. Perciò io fui costretto a condurre una specie di guerriglia partigiana per le mie idee scientifiche, cioè a render possibile la pubblicazione dei miei lavori per mezzo di citazioni di Stalin ecc., e di esprimere in essi con la necessaria cautela la mia opinione dissidente tanto apertamente quanto lo permetteva il margine di respiro dato di volta in volta dal momento storico. Ne conseguiva talora l’imperativo di tacere. È noto per esempio come durante la guerra fosse deciso di dichiarare Hegel ideologo della Reazione feudale contro la Rivoluzione Francese; perciò io non potei allora naturalmente pubblicare il mio libro sul Giovane Hegel. Si può certamente vincere la guerra, pensavo, anche senza ricorrere a simili sciocchezze senza basi scientifiche ma, una volta che la propaganda antihitleriana è andata ad occuparsi proprio di questo, è più importante per il momento vincere la guerra che questionare sulla giusta concezione di Hegel. È noto che questa tesi errata si è mantenuta a lungo anche dopo la guerra, ma è altrettanto noto che io ho poi pubblicato il libro su Hegel senza cambiarvi una riga. Si trattava tuttavia anche di problemi sociali assai più gravi di questo, i quali mettevano allora sempre più in evidenza l’aspetto negativo dei metodi staliniani. Mi riferisco naturalmente ai grandi processi, la cui legalità io fin da principio giudicai con scetticismo, non molto diversamente per esempio da quella dei processi contro i girondini, i dantoniani ecc. nella grande Rivoluzione Francese, cioè io riconoscevo la loro necessità storica senza preoccuparmi troppo della questione della loro legalità. La mia posizione mutò radicalmente allorché fu diffusa la parola d’ordine di estirpare fin dalle radici il trotskysmo ecc. Compresi fin dal principio che ne sarebbe seguita nient’altro che la condanna in massa di persone per la maggior parte del tutto innocenti. E se oggi mi si domandasse perché io non presi pubblicamente posizione contraria, non metterei in primo piano neanche questa volta l’impossibilità fisica (vivevo nell’Unione Sovietica come emigrato politico)ma quella morale: l’Unione Sovietica si trovava nell’imminenza della lotta decisiva contro il Fascismo. Un comunista convinto poteva dire soltanto: “right or wrong, my party”. Qualunque cosa faccia in tale situazione il Partito guidato da Stalin – pensavo con molti altri compagni – bisogna restare incondizionatamente solidali con esso in questa lotta, porre questa solidarietà al di sopra di tutto.
[…] L’anno 1948 rappresenta forse la più importante svolta della Storia a partire dal 1917: intendo la vittoria della rivoluzione proletaria in Cina. Appunto in seguito ad essa vennero in evidenza le contraddizioni decisive nella teoria e nella prassi di Stalin. Giacchè oggettivamente quella vittoria significava che il periodo del Socialismo in un solo paese – quale Stalin l’aveva difeso a ragione contro Trotskij – apparteneva definitivamente al passato; il sorgere delle democrazie popolari nell’Europa centrale aveva già rappresentato il passaggio alla nuova realtà. Ma soggettivamente fu evidente che Stalin e i suoi seguaci non volevano né potevano trarre dalla situazione internazionale radicalmente mutata le conseguenze teoriche e quindi pratiche. Stalin stesso da uomo assai accorto ha, nella sua azione, colto certamente sintomi e momenti della nuova situazione. Tuttavia mai veramente con coerenza, giacché l’idea che essa potesse significare una rottura coi metodi dell’epoca del Socialismo in un solo paese, coi metodi cioè oggettivamente derivati dal continuo stato di pericolo di una Russia industrialmente arretrata, che però proprio lui aveva spinto ben al di là di questa esigenza, tale idea, dicevo, era del tutto al di fuori della sua cerchia visiva. Avvenne allora che il nuovo assetto mondiale, che richiedeva categoricamente una nuova strategia e una nuova tattica, fu avvolto con un atto in cui fatalmente si assommavano e acutizzavano la strategia e la tattica antiche: cioè la rottura dell’Unione Sovietica con la Jugoslavia. Ne conseguì necessariamente il ritorno ai metodi dell’epoca dei grandi processi››.
Sarà proprio in questo periodo che Lukàcs abbandonerà la sua attività di funzionario dedicandosi esclusivamente al lavoro culturale ed intellettuale comprendendo come la mancata intuizione di Stalin della nuova situazione non fosse altro che una ripetizione degli errori del passato.
‹‹Mi fu evidente come, mentre nella seconda metà degli anni ’20 la lotta contro il Fascismo era divenuta il problema centrale, Stalin non ne avesse capito il significato se non un decennio più tardi. In un’epoca in cui la formazione di un Fronte unitario dei lavoratori, anzi di tutti gli elementi democratici, era divenuta una questione vitale per la civiltà umana, la tesi di Stalin della socialdemocrazia come “fratello gemello del Fascismo” rese impossibile questo fronte. Egli rimase dunque attaccato ad una strategia e ad una tattica che erano giustificate dalla tempesta rivoluzionaria del 1917 e subito dopo, ma che, col placarsi di quella, dopo lo spiegarsi della grande offensiva del capitalismo monopolistico più reazionario, erano oggettivamente del tutto invecchiate. Ciò che accadde dopo il 1948 cominciai a considerarlo come ripetizione storica dell’errore fondamentale degli anni ‘20››.
Insomma nessuno sconto da parte di Lukàcs nella visione staliniana della politica estera. Così come, d’altronde, anche in politica interna, nei confronti di ‹‹una società comunista in cui il principio liberatore “Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” si realizza in uno Stato di polizia›› e conseguentemente anche ciò che, da un punto di vista culturale, quella società esprimeva: ‹‹[…] interessava soltanto trovare per ogni problema trattato la citazione da Stalin appropriata. […] Che con tale sistema la vita scientifica soffrisse gravemente non occorre venga dimostrato. Basti solo accennare che le scienze più importanti dal punto di vista teoretico per lo sviluppo del marxismo, l’economia politica e la filosofia, furono quasi completamente paralizzate››.
Lukàcs e la “Poesia di Partito”
Nonostante le continue accuse di chi, ancora oggi, continua ad accusare Lukàcs di aver sottomesso l’arte ai bisogni della politica, in realtà il pensatore ungherese cercò un’elaborazione teorica che lo portò a criticare fortemente ‹‹come pessimo Naturalismo oleografico›› tutta la letteratura sovietica in voga in quel periodo storico. In numerosi saggi ed articoli apparsi sulla rivista “Literaturnyi kritik” si oppose infatti alle teorizzazioni della Rapp (Associazione degli scrittori russi proletari)e del Lef (Fronte popolare delle arti)sostenendo che ‹‹si proclamava il carattere ideologico della letteratura, ma si riconoscevano come ‘ideologia’ solo le risoluzioni più recenti del partito […] purché l’autore fosse fedele al partito, si proclamava come arte di alto livello anche il peggior naturalismo››.
Tutto questo pur essendo un sostenitore, per un certo periodo, della cosiddetta “Poesia di partito”. Anche qui bisogna però sottolineare come quello che Lukàcs intendeva come “Poesia di partito” era una cosa profondamente diversa dallo “zdanovismo”. Cioè quella pratica “culturale”, tristemente inaugurata da Andrej Aleksandrovic, Zdanov e da Stalin per rafforzare il proprio regime, per cui gli artisti dovevano essere semplicemente degli ‹‹ingegneri delle anime››, riducendo dunque l’intellettuale ad uno “specialista” senza alcuna competenza per quanto riguarda le questioni prime e primarie che spettano invece al Partito.
Il concetto di Lukàcs sulla “Poesia di partito” invece, come dicevamo, sarà profondamente diverso ed antitetico. In un saggio del 1945 per celebrare il poeta ungherese Attila Jòzsef, morto suicida nel 1936, intitolato proprio “Poesia di partito”, egli scriverà che il ‹‹vero poeta può aderire e riconoscersi soltanto nella missione storica del partito›› e con la sua “linea strategica” interpretando però da sé i contenuti concreti di quella missione storica e di quella “linea” strategica prendendosi tutte le responsabilità di quella interpretazione. Il poeta, l’intellettuale stesso, insomma, non potrà mai essere un “comandante” o un “soldato semplice”, ma sempre un “partigiano” che opera, al tempo stesso, fedelmente al partito ma anche in maniera “individuale” perché solo così ‹‹il poeta può collegarsi come poeta al partito e quindi condurre la sua lotta per gli obiettivi comuni insieme con la parte migliore del popolo lavoratore›› senza venire imbrigliato da ottuse gerarchie e discipline organizzative.
Lukàcs e l’Estetica
Il campo dove però il pensiero di Gyorgy Lukàcs fu più fecondo sarà senza dubbio quello “estetico” senza però mai risultare esclusivamente accademico ma sempre “militante”.
A seguito dei primi saggi critici che abbiamo già trattato, “Teoria del Romanzo” e “L’Anima e le Forme” che risentirono fortemente del clima tragico della Grande Guerra, è con la sua adesione al comunismo che l’Estetica di Lukàcs fa un salto di qualità. Il primo saggio marxista risale già al 1937-38 con “Il Romanzo storico” in cui viene esaminata un’ampia produzione della letteratura mondiale risalente al periodo storico seguente la Rivoluzione Francese, quando la Storia era, secondo Lukàcs, divenuta un’esperienza ‹‹vissuta dalle masse››. In questo testo evidente sarà la sua base hegeliano-marxista, in particolare nella dialettica dei generi e, soprattutto, nella teoria del “rispecchiamento” tra fenomeni sociali ed opere letterarie.
Questi temi verranno ripresi e sviluppati (abbandonando, ad esempio, il concetto di “ascesa e decadenza del Romanzo”)in seguito alla seconda Guerra Mondiale quando, tra il 1948 ed il 1954, Lukàcs pubblicherà i suoi lavori più importanti da un punto di vista estetico e letterario: “Saggi sul Realismo” (1948), “Il marxismo e la critica letteraria” (1952), “Contributi alla storia dell’Estetica” (1954) e numerosi altri saggi e lavori sulla letteratura tedesca (in particolare su Goethe e Mann).
Fondamentale nella riflessione estetica di Lukàcs fu la teoria del Realismo, partendo dalla convinzione che la grande arte è essenzialmente realistica. È bene però precisare che il Realismo di Lukàcs non ha nulla a che vedere né con il cosiddetto “Realismo socialista” né, tantomeno, con il Naturalismo, con il ritrarre la realtà in senso “fotografico”, non confondendo dunque Balzac, Scott, Tolstoj e Mann (realisti) con Flaubert e Zola (naturalisti). Soltanto nei primi si realizza infatti il “tipico”, attraverso cui il “simbolo” (con cui “particolare” ed “universale” riescono a fondersi)si trasferisce nella vera arte realista.
Per l’affermazione del “tipico”, però, ci dice Lukàcs, in maniera apparentemente contraddittoria, è fondamentale che vi sia una “presa di posizione” da parte dello scrittore sui grandi problemi del suo tempo e, dall’altro, che vi sia anche un’estrema “onestà” da parte sua nel seguire la logica narrativa dei personaggi, anche a discapito dei suoi “profondi convincimenti”. È così che Balzac e Tolstoj possono essere considerati come scrittori “progressivi” poiché, nonostante i loro “profondi convincimenti” reazionari, riescono a delineare il profilo della società ottocentesca, la sua realtà economica, le sue contraddizioni di classe.
Da ciò deriva, come dicevamo, l’apparente contraddizione di come possa essere uno scrittore “onesto” prendere anche “posizione”. Contraddizione che viene risolta attraverso la “partecipazione” poiché, secondo Lukàcs, partecipare al sociale e prendere posizione è la stessa cosa, ed è attraverso di essa che il grande scrittore realista riesce a fondere particolare ed universale ‹‹nel tipico››. Per questo Lukàcs, così come Goethe, pensa che la conoscenza artistica non si ottenga grazie ad un’astratta consapevolezza critica, razionale ed individualistica, ma solo quando si è ‹‹parte di un tutto››.
Sarà grazie a questo fondamentale concetto che il filosofo ungherese opporrà Realismo e Naturalismo, visti come lo scontro tra ‹‹partecipazione ed osservazione››: i naturalisti “fotografano” la realtà, la descrivono in ogni dettaglio, ma senza ricollegare i vari particolari ad un universale, ad un contesto generale che gli dia senso e valore come nei realisti. I naturalisti infatti studiano ed osservano, i realisti ‹‹partecipano e narrano››. L’atteggiamento dei naturalisti sarà perciò aspramente e duramente condannato da Lukàcs, vedendolo come il risultato di una “professionalizzazione” dello scrittore poiché: ‹‹[…] con ciò diventano scrittori di mestiere nel senso della divisione capitalistica del lavoro››(Cfr: “Marxismo e critica letteraria”). E l’accettazione della divisione capitalistica del lavoro che lo costringe alla specializzazione professionale non fa altro che impedire allo scrittore ‹‹la partecipazione alla totalità della vita››.
Lukàcs fu uno dei più grandi critici letterari, marxisti e non solo, del ‘900, anche se va detto che non riuscì a superare lo sguardo tutto ottocentesco sulla letteratura e non riuscì perciò a comprendere quella posteriore. Come infatti ha sottolineato Carlo Salinari, nell’introduzione a “Scritti sull’arte” di K. Marx e F. Engels, essa fu vista da Lukàcs ‹‹come una deviazione in senso naturalistico, o intimistico, da quel modello, come una letteratura di decadenza. E invece non sarebbe stato difficile accorgersi, in una diversa angolazione della ricerca, che nelle condizioni storiche sviluppatesi dopo il ’48 e soprattutto nel periodo dell’Imperialismo, la letteratura non poteva che essere “atipica” e non per questo (in certi casi, s’intende)cessare di essere realistica, cessare, cioè, di assolvere a quella funzione di rappresentazione non deformata della realtà e di demistificazione dei valori ufficiali. […] la coscienza della crisi, la solitudine e la disperazione dell’uomo moderno diventano i grandi temi con cui artisti di ogni nazione e alcuni movimenti di avanguardia si rendono consapevoli dell’alienazione della società contemporanea e ne denunziano l’assurdità e la crudeltà […] La stessa fuga dalla realtà che caratterizza tanti scrittori del nostro secolo, da una parte conduce al rifugio nel patologico o nell’eccezionale, ma dall’altra ha portato a una nuova consapevolezza della mortificante prosa quotidiana di una civiltà i cui valori sono fondati sul successo››.
Conclusioni: l’attualità di Gyorgy Lukàcs
In base a tutto ciò, ai vari campi e alle varie posizioni espresse da Lukàcs, un errore, compiuto da molti, sarebbe quello di stimare una rigida “periodizzazione” del percorso intellettuale di Gyorgy Lukàcs (secondo cui vi sarebbe un Lukàcs “pre-marxista”, un Lukàcs “giovane marxista messianico” ispiratore del cosiddetto  “marxismo occidentale”, un Lukàcs “marxista leninista ortodosso” ed infine un Lukàcs puramente “accademico”). Nonostante le differenze evidenti tra le varie opere, il progresso del suo pensiero e anche in certi casi una necessaria involuzione (“Storia e coscienza di classe” è senza dubbio più interessante e moderno della “Distruzione della ragione” che infatti fu accolto in maniera migliore da parte del marxismo internazionale)esiste infatti una continuità che si concluderà nell’”Ontologia dell’essere sociale” (a cui si devono aggiungere i “Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale” degli anni ’70), purtroppo incompleta.
Per “ontologia”, Lukàcs ovviamente non intende la definizione filosofica classica che s’intende solitamente con questo termine (cioè lo studio dell’essere e delle sue categorie fondamentali)intendendo, al contrario, che l’Essere esiste solamente nella sua “processualità storica” che soltanto oggi possiamo intendere come tale.
In questa sua ultima fatica Lukàcs ritorna inoltre sui temi presenti in tutte le sue opere (la dialettica, la totalità, l’individuo e la società, il lavoro e l’alienazione, la struttura e la sovrastruttura)cercando di delineare, come dicevamo, un’”Ontologia”, un’indagine storica, che possa fungere da supporto per la nuova battaglia che si preannunciava, e che si presenta ancora, delineando temi oggi ancora più attuali e moderni per le battaglie del presente. Una battaglia non più fondata esclusivamente contro l’estorsione del Plusvalore, ma una lotta “etica” (dialettica ovviamente), fondamentale per combattere contro il “formalismo dissolutore del reale” (il neopositivismo), l’”individualismo astorico” (l’esistenzialismo), il relativismo nichilista (un certo storicismo), la sottovalutazione dell’uomo, dell’individuo e della sua attività creatrice (il materialismo meccanicistico e determinista).
Un comunismo, insomma, “comunitario” formato da “libere individualità” che, senza alcuna demonizzazione ideologica, nulla avrebbe a che spartire con il comunismo storico novecentesco. Cosa della quale era convinto lo stesso Lukàcs, il quale ne vide il suo fallimento innanzitutto da un punto di vista culturale, prima ancora che economico, per aver inteso il comunismo come un problema ‹‹esclusivamente economico››, non uscendo perciò dalla visione socialdemocratica e del capitalismo che affida il proprio funzionamento ‹‹alle sole leggi dell’economia››.
È da questo messaggio di Lukàcs che dobbiamo ripartire.

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