sabato 21 dicembre 2013

ANDREA FAIS: L'Europa in balia delle onde atlantiche




Nel 1996 fu Samuel Huntington ad avvertire l'umanità che la fine della storia preconizzata da Francis Fukuyama qualche anno prima, sarebbe stata soltanto un'illusione temporanea in un pianeta ovattato dalla retorica clintoniana. Appena due anni dopo il crollo del Muro di Berlino, il Pentagono aveva già lanciato l'operazione Desert Storm in Iraq, inaugurando sul campo una serie di novità tattico-operative come l'offensiva simultanea e le integrazioni ICT. La Rivoluzione negli Affari Militari era nell'aria da tempo. Se ne parlava sin dall'inizio degli anni Ottanta anche in Unione Sovietica, dove il generale Nikolaj Ogarkov sosteneva con insistenza la necessità di modernizzare la dottrina militare puntando sull'alta tecnologia e sulla ricerca della supremazia convenzionale piuttosto che nucleare. La dissoluzione, però, portò via con sé tutti i programmi strategici del Cremlino, lasciando agli Stati Uniti, unica superpotenza rimasta, uno spettro di manovra di dimensioni globali.
Contrariamente alle promesse ventilate in un primo momento in sede di Consiglio Atlantico, il processo di finlandizzazione del continente europeo non è mai avvenuto. Anzi, tra il 1990 e il 2009 la NATO ha integrato, uno dopo l'altro, tutti i vecchi alleati di Mosca nel Patto di Varsavia (Germania Est, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Albania), oltre alle tre repubbliche baltiche ex sovietiche (Estonia, Lettonia e Lituania).
La disastrosa situazione balcanica all'indomani della dissoluzione jugoslava ha poi consentito a Washington di intervenire nella regione e di determinare nuovi equilibri tutt'ora instabili e precari: equilibri che, sbilanciatissimi in favore degli alleati bosniaco, kosovaro e albanese (grande contraddizione della cosiddetta “linea dura” adottata dalla Casa Bianca contro il terrorismo islamista), non hanno mai seriamente spento alcun focolaio di tensione interetnica e interreligiosa, lasciando aperto il campo al rischio di nuovi drammatici scontri armati.
Nel 2009 la NATO ha raggiunto i 28 membri e mantiene in essere le proposte di integrazione avviate con la Finlandia e la Georgia. Malgrado la pesante crisi economica cui sono sottoposti molti dei suoi Paesi aderenti, l'Alleanza continua ad impegnarsi e ad impegnare gli stati maggiori coinvolti: stando ai dati del SIPRI di Stoccolma, la somma delle spese militati sostenute nel 2012 dai singoli Stati membri supera abbondantemente i 1.000 miliardi di dollari. A questi vanno aggiunti anche i rilevanti dati dei Paesi non-NATO sostenuti e armati dagli Stati Uniti, come il Giappone, l'Arabia Saudita, la Corea del Sud o Taiwan, raggiungendo così circa 1.200 miliardi su una spesa militare mondiale annuale complessiva pari a 1.756 miliardi di dollari. Nel maggio 2012 il vertice di Chicago ha stabilito la linea-guida della Smart Defense che, come ribadito dall'allora segretario alla Difesa Robert Gates, significherà “fare di più con meno soldi”. Dal momento che senza risorse e investimenti non si realizza nulla, è logico supporre che nei prossimi anni una porzione significativa delle spese militari dell'Alleanza dovranno essere sostenute dai Paesi europei nel quadro di un effetto-travaso tra le due sponde dell'Atlantico settentrionale. L'Europa, dunque, dovrà fare di più, secondo quanto sostenuto sia da Gates che dal suo successore Leon Panetta.
È forse questa la spiegazione della linea di austerità decisa da Bruxelles negli ultimi due anni? Senz'altro l'Unione Europea si presenta oggi come un corpo senz'anima, priva di una precisa impalcatura politico-costituzionale ed ingabbiata nelle decisioni, spesso impopolari ed autolesioniste, di una tecnocrazia non eletta o comunque scarsamente rappresentativa dei bisogni dei cittadini europei. Unire l'Europa non è mai stato un obiettivo semplice nella storia e, malgrado i numerosi tentativi, i nazionalismi particolari da una parte e gli imperialismi nazionali dall'altra hanno sempre impedito la maturazione di un'idea confederativa autonoma e specifica per il Vecchio Continente. Insufficiente, quando non addirittura fuori luogo, l'intuizione liberale dei cosiddetti Stati Uniti d'Europa: uno slogan o, per dirla con Lenin, una “parola d'ordine” per rimediare superficialmente ai disastri del passato e alle contraddizioni interimperialiste del presente più che un serio progetto unitario finalizzato ad una vera trasformazione sociale, economica e strategica del continente europeo. Perfino Romano Prodi, tra i primi artefici dell'integrazione europea in Italia, registra oggi il fallimento del progetto iniziale e la necessità che i Paesi maggiormente in crisi si organizzino autonomamente per dare origine ad un blocco interno mediterraneo con lo sguardo rivolto verso Oriente, in primis Mosca, Pechino e Astana, luoghi dove il professore bolognese gode di grande stima e considerazione da alcuni anni a questa parte. Eppure, anche uno scandalo di vasta portata come quello del Datagate non è bastato a rimettere in discussione i rapporti tra l'Europa e gli Stati Uniti e riporre definitivamente in soffitta l'azzardato progetto dell'Area Transatlantica di Libero Scambio.
Dopo la cocente sconfitta diplomatica subita ad opera di Putin sulla questione siriana, Obama non può rischiare ancora. Per Washington perdere l'Europa significherebbe perdere l'ultima regione del continente eurasiatico su cui è in grado di esercitare un controllo capillare per mezzo della sua massiccia presenza militare e culturale. L'intero arco mediterraneo rappresenta dunque la porzione più esposta di quel territorio costiero (Rimland) che Nicholas Spykman considerava determinante già negli anni Quaranta, nel quadro del potere peninsulare che gli Stati Uniti avrebbero dovuto esercitare per impedire la formazione di vasti blocchi geopolitici concorrenziali in Europa e in Asia. Durante la Guerra Fredda era molto più agevole nascondere questi diktat strategici dietro la bandiera dell'anticomunismo, attorno alla quale fu reclutata la più bieca e fanatica manovalanza neofascista, islamista, panturchista o lamaista senza suscitare eccessivo clamore mediatico. Oggi, invece, l'emersione progressiva di un mondo multipolare e la compresenza di una serie di potenze non accomunate/accomunabili da uguali caratteri politici, religiosi o culturali complica il quadro internazionale. Di fronte all'incedere dei BRICS, il soft-power statunitense è spiazzato e la retorica dei “diritti umani” fa acqua da tutte le parti. Per la prima volta negli ultimi venti anni, il dominio comunicativo di Washington comincia a scricchiolare. Il network internazionale moscovita Russia Today, la prima emittente cinese CCTV coi suoi canali in lingua inglese, l'iraniana Press TV e tanti altri circuiti televisivi satellitari non occidentali vanno diffondendosi di pari passo con le potenzialità di quella rete internet che Washington pretendeva di poter utilizzare a senso unico per innescare, via e-mail o via twitter, mobilitazioni reazionarie contro governi non allineati alla NATO.
La stessa Europa, almeno sul piano economico, da alcuni anni ha inaugurato una fitta rete di scambi commerciali con la Russia e con la Cina. In particolare la Germania sembra poter godere di nuovi mercati di sbocco dove valorizzare la sua competitività industriale altrimenti compromessa o svilita nel contesto del mercato unico europeo. Tuttavia l'integrazione nella NATO costringe Angela Merkel a mantenere un atteggiamento ostile ed indisponente sul piano politico, come evidenziato dalle dichiarazioni provocatorie rilasciate recentemente in relazione alla crisi in Ucraina, dove gli interessi dell'Unione Europea vengono scaraventati direttamente sulle piazze pubbliche dai neonazisti di Svoboda e da altre forze antirusse. Tutto ciò smorza continuamente sul nascere il consolidamento in chiave politica delle reti commerciali alternative offerte dall'Oriente, che hanno fin'ora letteralmente salvato l'export dei Paesi europei più in crisi, Italia compresa, ancora in grado di vantare una bilancia commerciale positiva malgrado la recessione.
La scelta del nostro Parlamento di silurare Romano Prodi e di riconfermare Giorgio Napolitano al Quirinale resta emblematica nella determinazione dell'orientamento internazionale di un'Italia che preferisce arrancare nelle sabbie mobili di posizioni anacronistiche e masochiste, evitando perfino di rendere pubblicamente conto agli italiani del recente disastro libico voluto dalla NATO, che ha pesantemente danneggiato non solo la nostra economia ma anche l'intera stabilità del Mediterraneo.

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